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Non so neanche come cominciare questa recensione, così a caldo, appena finito il libro. Perché di norma è così che faccio: finisco un libro, scrivo subito quello che mi passa per la testa in quel momento, senza rimuginarci su, senza
pensarci su. Questo mi aiuta ad essere totalmente sincera, in questo modo posso solo scrivere il mio reale pensiero sul libro. So che se iniziassi a rimuginare, pensare, non sarebbe il mio pensiero reale, ma devo ammettere che in questo caso mi risulta difficile, perché sono rimasta senza parole. E, capiamoci, non è una cosa poi così facile!
Quando l’autrice mi ha scritto per questa collaborazione, mi ha rapita la sua lunghissima e bellissima mail di presentazione. Mi ha presentato il suo romanzo come una madre presenta orgogliosa il suo bambino a tutto il mondo, da quanto ne è fiera. Quando vedo questo in una mail, già sono automaticamente propensa alla lettura e alla collaborazione, perché mi aspetto grandi cose e, per fortuna, di norma non sbaglio.
Parlo di “Il pane sotto la neve” di Vanessa Navicelli, uscito nel 2017. Inoltre voglio fare una menzione speciale ai ringraziamenti finali del romanzo. L’autrice fa sapere al lettore che ha studiato molto queste vicende, ma soprattutto ha ascoltate molte testimonianze e aneddoti raccontanti da persone che hanno davvero vissuto in quel periodo o che li hanno semplicemente tramandati ai proprio famigliari.
L’autrice dice di sé:
Sono nata a Vicobarone, un piccolo paese sulle colline piacentine, ma da anni vivo a Pavia. Sono cresciuta coi film neorealisti italiani, con le commedie e i musical americani, coi cartoni animati giapponesi, coi romanzi dell’Ottocento inglese e coi libri di Giovannino Guareschi. (Be’, sì… anche coi miei genitori.)
Mio padre mi ha trasmesso l’amore per la libertà. Mia madre un modo buffo e tenero di vedere le cose. Tutte e due mi hanno spinta a inseguire sempre (con tenacia) i miei sogni. (Hanno anche un sacco di difetti, eh! Ma queste cose… eh, queste sono impagabili.)
Amo la neve (specie mentre scende), l’opera lirica (Verdi come nessun altro), il buio e il silenzio del teatro (quando sta per aprirsi il sipario), e il mare a settembre.
Trama:
Una coppia giovane, due figlie, un paesino, degli amici, tante difficoltà e la voglia di farcela.
Sembra una storia di oggi. Invece… è ambientata nella prima metà del Novecento.
“Torniamo all’antico, sarà un progresso!” diceva Giuseppe Verdi. Ed ecco allora un romanzo che ci ricorda le nostre radici. Chi siamo e quanto ci è costato arrivare fin qua.
Il pane sotto la neve è un romanzo di narrativa popolare, ambientato “da qualche parte sulle colline dell’Emilia, al confine con la Lombardia, dove la provincia di Piacenza abbraccia la provincia di Pavia.”
È la saga di una famiglia contadina dai primi del ’900 fino alla primavera del 1945.
Si racconta della prima guerra mondiale, della fatica del lavoro in campagna, delle figlie che crescono e si fidanzano. Dell’arrivo della seconda guerra mondiale, della Resistenza. E dei nipoti: chi parte soldato, chi diventa partigiano.
Un mondo e una felicità fatti di piccole grandi cose. Tra politica e apparizioni della Madonna, canzoni degli alpini e orgoglio partigiano, la musica di Verdi e le passeggiate lungo il Po, innamoramenti inattesi e le gare ciclistiche di Bartali e Coppi, le recite di Natale in parrocchia e un bicchiere di vino all’osteria.
E’ importante, prima della recensione, farvi sapere che, fin da che ero ragazzina, non ho mai amato molto la storia. Di conseguenza, ai romanzi storici mi sono sempre tenuta bene alla larga. Non per cattiveria o altro, ma proprio perché temevo mi potessero annoiare e, capiamoci, leggere un libro che annoia è impossibile, oltre che un’estrema tortura. Grazie a questo libro, invece, ho capito che dipende da come viene scritto, raccontato e come riesce a farti entrare nel pieno della storia, in quegli anni così difficili.
Come dice la trama, il tutto si svolge nella prima metà del novecento, quindi va a toccare tematiche particolari come la Prima e Seconda Guerra Mondiale e la vita delle persone più povere, i contadini, come erano Tino e Cesira, i protagonisti.
L’autrice non scende in troppi dettagli storici quindi per una persona come me, come vi ho detto nella premessa, è proprio il massimo. Ho potuto apprezzare ogni parte del libro proprio per questo. Mi sono innamorata dei protagonisti ogni pagina di più. Inoltre questo romanzo fa parte di una saga, nei libri successivi il focus sarà su altri personaggi secondari come le figlie o i nipoti di Tino e Cesira e posso tranquillamente dire che non vedo proprio l’ora! Nella lettura, infatti, ho imparato ad apprezzare anche loro, quindi un libro totalmente dedicato sarei più che felice di leggerlo.
L’ho letto tutto d’un fiato, non mi ha mai stancata, volevo sempre di più. Mi ha rapita, ero proprio concentrata mentre leggevo, per assorbire ogni dettaglio ed ogni emozione che poteva trasparire dai capitoli.
Questo romanzo, come dice l’autrice, è stato scritto per poter essere letto e apprezzato da tutti. Per permettere a tutti di conoscere quella vita, quelle vicende. L’intento, secondo me, è ben riuscito, assolutamente. E’ leggero, scorrevole, chiaro e arriva dritto al punto, senza perdersi negli eventi, rimanendo sempre schematico e con un fine ben preciso. I dati storici ci sono, per forza di cose, ma non sono fastidiosi, forzati o noiosi. L’unica cosa che forse potrei dire è che il lato emotivo dei personaggi, almeno dei protagonisti, poteva essere approfondito un po’ meglio, ma per quanto mi riguarda è un libro bellissimo, che ti pone davanti a realtà così lontane, ma allo stesso tempo così vicine e nonostante questo rischiano sempre di essere dimenticate.
Io ho pianto alla fine di questo romanzo. E’ vero che sono una persona molto emotiva, ma non piango per niente. Le ultime pagine me le sono totalmente divorate, sono state un turbinio velocissimo di emozioni che non potevano concludersi in modo migliore. Quando piango alla fine di un libro non mi spiace, so che mi ha toccata nel profondo, che mi ha trasportata e so che, in questo genere di romanzi, può essere solo che un bene.
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