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“A un certo punto ti abitui a non essere speciale per nessuno.
Tu, che invece trovavi speciale il mondo.”
Questa frase mi ha fatto male.
L’ho scelta perché è crudelmente vera. E perché nei pochi secondi che bastano per pronunciarla, arriva a scandagliare ogni dolore mai nascosto nei sotterranei del passato.

Anais è la ragazza più popolare della scuola, la capo cheerleader, la reginetta del ballo di fine anno da quando era ancora una matricola e la fidanzata del quarterback e capitano della squadra di football; bionda, occhi azzurri, fisico da urlo e sorriso mozzafiato; in poche parole: la diciottenne perfetta. Un modello da seguire, e da invidiare in silenzio.
Quello che nessuno riesce a vedere, però, sono le crepe di profonde incertezze nella sua finta corazza di sicurezza; le mancanze affettive, che cela abilmente appena dietro l’apparente indifferenza; milioni di paure che la sommergono e continuano a tessere una fitta matassa che la soffoca ogni giorno di più. Anais non si sente mai abbastanza; malgrado tenti con tutte le forze di non deludere le aspettative dei suoi genitori e di non dar loro alcun motivo di dubitare della sua ottima e impeccabile condotta, si sente crollare alla fine di ogni giornata. Perché in realtà non è perfetta come loro pretendono, non è bellissima come la vorrebbero, non è eccezionale al punto da esaudire i loro desideri. E a questo contrasto, tra ciò che è e ciò che deve sforzarsi di apparire, lei sopperisce punendo sé stessa.
“Col dolore curo il dolore.”
In realtà, non è così. Ma l’illusione di avere il controllo almeno sul suo corpo, mentre si procura tagli e ferite dalle quali estrapola il male fisico per annientare quello dell’anima, le dà un po’ di sollievo e la forza necessaria per resistere ancora un po’. Un giorno in più.
E quel fisico da copertina che si ritrova, è solo il contenitore della sofferenza che la pervade, che la corrode e della quale non riesce a liberarsi; ci prova ogni sera, nel suo bagno, attaccata al water e con le dita ficcate in gola, ci prova a buttare fuori un po’ del male che il suo corpo trattiene a stento, ma l’unica cosa che ottiene tra un conato e l’altro è ancora più dolore. Ancora più lacrime. Ancora più incomprensione.
Desmond è un ragazzo dal destino segnato, anche lui è stato più volte ferito dalle persone a cui voleva bene e che, un giorno come tanti, lo hanno abbandonato. I suoi genitori sono morti in un incidente stradale, ubriachi o forse strafatti, quando era solo un bambino. Da allora, gli ultimi dieci anni li ha trascorsi in un istituto, tra affidi temporanei che gli hanno fatto più male che bene, e il menefreghismo di chi lo circondava ogni qualvolta tornava alla base.
È arrabbiato con il mondo, al punto da non volerne più fare parte. Mette in pericolo la sua esistenza in svariati modi, pur di trovare un po’ di pace, sfida la sorte e la morte senza alcun rimorso o riserva. I suoi atteggiamenti sono intrisi di arroganza, le sue parole, la postura, ogni sguardo che riserva al mondo circostante sono pregni di strafottenza e menefreghismo. Di rabbia e delusione.
Quando i genitori di Anais decidono di partecipare ad un progetto di adozioni, che coinvolge tutte le famiglie importanti della città, Desmond viene “scelto” e dato in affido ai Kerper; questa potrebbe essere l’occasione della sua vita, una possibilità di rivalsa per tutto ciò che ha dovuto sopportare. Arriva dunque alla villa, la sua nuova casa, e nell’aria fiuta già le troppe imperfezioni di quella famiglia che si ostina a spacciarsi come “perfetta”. Quando incontra Anais, ogni dubbio diventa certezza e si rende presto conto che la realtà fra quelle mura è anche peggio di quanto sospettasse.
Tra loro nasce sin da subito un sentimento ben lontano dall’amicizia; l’attrazione è palese, ma quella potrebbe essere giustificata dal fatto che entrambi siano bellissimi. C’è di più: c’è quel senso di protezione che Des ha nei confronti della ragazza, la voglia irrefrenabile di scacciare via la sua sofferenza e sostituire ogni lacrima con un sorriso; e poi c’è lei, che ha una paura folle di perderlo e un desiderio matto di sentirlo vicino. Perché lui la capisce, lui la “vede”. Ed è l’unico che ci riesce.
È il primo romanzo che leggo di Sara Purpura e ne sono rimasta piacevolmente sorpresa. Ciò che mi ha colpito di più, è stato il modo delicato ma incisivo con cui l’autrice è riuscita a trattare temi e argomenti davvero delicati, come l’autolesionismo, la bulimia, l’anoressia. Non è facile parlarne e non sempre si è in grado di farlo dalla giusta prospettiva, ma lei ha trovato la chiave di entrare nel cuore del problema e mostrarci come questi disagi vengono vissuti da chi ne è affetto, quanto siano “necessari” e distruttivi al tempo stesso per le persone che ne soffrono.
Ho amato questo libro dalla prima all’ultima pagina, ho assaporato il dolore dei protagonisti e le loro ansie, ho sorriso insieme a loro e mi sono commossa ogni volta che li vedevo lottare contro le loro stesse fragilità. È stato intenso e bellissimo.
Ve lo consiglio, ma più che altro vi prego di leggerlo! Perché è una di quelle storie che lascia l’amaro in bocca, ma anche il retrogusto della speranza e della rivincita.
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