Tornano le interviste tra queste 50milapagine e lo fanno un ospite d’eccezione, che è Raffaele Donnarumma, che ho avuto il piacere di intervistare in occasione dell’uscita del suo libro, “La vita nascosta“, edito da Il ramo e la foglia Edizioni. Iniziamo subito perché, come me, sarete molto curiosi di leggere cosa ci dirà il nostro ospite.

Innanzitutto ciao Raffaele e benvenuto. Iniziamo partendo proprio dal tuo libro appena uscito, “La vita nascosta”. Se ti chiedessero di esporre brevemente il tuo libro, cosa diresti?

È la storia di uno che, dopo la fine di una storia nella quale aveva creduto, cerca di riappropriarsi della propria vita. Poi, per una specie di coazione a ripetere e perché, a volte, ha paura della realtà e di sé, non sa se è in grado di andare fino in fondo nelle cose. Attraversa esperienze comuni, come il tradimento, la gelosia, l’ossessione per il corpo, le relazioni virtuali, i conflitti fra generazioni, la fatica di assumersi delle responsabilità, la depressione. Lascio decidere al lettore come ne esce.

Molto interessante e anche forse molto attuale come cosa. Da dove nasce l’idea di parlare di un momento così difficile della vita come quello del fallimento di una relazione di lunga data?

Soggettivamente, da un fantasma interiore (per fortuna, a me le cose vanno molto meglio che a R.); oggettivamente, dal fatto che ogni narrazione deve nascere da un momento di crisi, sennò non c’è gusto e non ci sarebbe azione. Del resto, le relazioni hanno ormai spesso un corso o breve o accidentato: anche quando non ci capita in prima persona, lo sappiamo bene tutti. Immagino che sino a qualche generazione fa ciascuno desse quasi per scontato che le relazioni durassero sino alla fine dei suoi giorni, per amore, o per forza, o per convenienza; oggi, temiamo sempre che possano finire, ed è tutto sommato un miracolo se sono davvero stabili. Il fallimento fa da sfondo alle nostre vite, non solo sentimentali. Io ci rimango sempre malissimo quando due amici si lasciano (e questo sì, è un sentimento che ho prestato a R. nel primo capitolo). La paura è un grande motore di fantasia: almeno questo è un vantaggio.

Sicuramente attingere dalle proprie esperienza personali, dirette o indirette che siano, aiuta a esprimere meglio alcuni concetti, facendoli arrivare al lettore in modo più vero e realistico, ma quanto hai studiato o ti sei informato per poter parlare di questo genere di sentimenti, in modo delicato e sensibile come traspare dalle tue parole?

Esiste oramai una letteratura scientifica molto ampia sulle dipendenze, sulla depressione, sui mutamenti prodotti da internet: ho letto molti bei saggi, alcuni ormai classici, come quelli di Ehrenberg o di Recalcati. Stranamente, non esiste (almeno mi pare) molta letteratura-lettaratura su questi temi, e anche per questo valeva la pena di raccontare una storia che desse loro una forma. Un romanzo, però, non è un trattato. Tutto quello che R. dice su queste cose ha il colore della sua voce, il segno della sua esperienza e della sua volontà o difficoltà di capire. E del resto, nella materia di riflessione di R. (anche se spesso non nei modi e negli esiti della sua riflessione) ci sono anche molte esperienze personali mie e moltissima osservazione delle persone che ho intorno – e delle mie reazioni a quello che ho intorno. La prima molla è stata questa: non racconti una storia se non vedi dei volti, se non hai in mente dei destini precisi. I saggi sono venuti dopo, e a volte ho deciso di lasciare in ombra cose a cui avrei saputo dare un nome clinico (per esempio, l’alessitimia di L., che non viene mai chiamata così). Il ne faut jamais tout dire, diceva un tale: non bisogna mai dire tutto. E poi i romanzi che mi fanno delle lezioncine mi annoiano, se non fosse per il mio super-io salterei a piè pari quelle pagine. Ce ne sono in giro troppi scritti tenendo sotto gli occhi le pagine di Wikipedia. Ne “La vita nascosta” ho voluto che si sentisse sempre la voce di qualcuno che si affanna a capire cosa sta succedendo alla sua vita (alle nostre vite). La fatica della conoscenza è più importante, e mille volte più avventurosa, del risultato della conoscenza. E poi, ci vuole stile: il lavoro di scrittura sulle parti riflessive è stata per me una delle prove che più mi ha acceso la fantasia. Volevo dare corpo alle idee, tradurle in immagini sensibili, far sì che – in ogni senso – si sentissero.

Sono completamente d’accordo, non esiste alla fine libro senza tutti i presupposti che ci dici. Come hai lavorato quindi anche sulla caratterizzazione del personaggio protagonista?

Come un attore che si immedesima nel suo personaggio, o come un medium che evoca gli spiriti e si lascia possedere. C’è una bellissima lettera di Svevo, in cui spiega a Montale che, per scrivere la Coscienza, a un certo punto ha preso a camminare, fumare, comportarsi come Zeno. Bisogna farsi abitare dal proprio personaggio-narratore, cedergli la voce, far risuonare, nella propria, la sua. La cosa strana è che questo lavoro di soggettivazione (emotivamente molto faticoso, se al tuo protagonista capitano cose che a te fanno spavento, o se fa cose che tu non hai fatto) è un lavoro di oggettivazione. Più lasci che lui parli in te, da te, più lui è un altro da te. Mi rendo conto che dal punto di vista della logica suona parecchio strano; ma non penserà mica che inventarsi una storia sia una cosa sensata? E poi, non è un caso che il principe dell’impersonalità narrativa, Flaubert, abbia detto: Madame Bovary c’est moi (che poi non l’ha mai scritto da nessuna parte, ma ci sono storie finte troppe belle per non crederle vere).

Bellissime parole, credo che siano proprio quelle che ci si dovrebbe aspettare da uno scrittore. Cosa diresti a un lettore per convincerlo a scegliere il tuo libro? Quali sono i suoi punti forti?

No, per carità: io come lettore non vorrei mai essere convinto! Voglio essere corteggiato, preso per il mio verso, portato dove non mi sarei mai aspettato di arrivare, e dirmi a un certo punto: oddio, chi l’avrebbe mai detto? Come sono finito quaggiù? La grande gloria del romanzo è sempre stata farci entrare nella testa degli altri (e sia pure, di altri immaginari), farci vivere vite che non sono la nostra. Ma questa avventura di lettori funziona meglio se i personaggi che seguiamo, dopo averci catturati e spinti a metterci dalla loro parte, ci rivelano qualcosa che non va – di loro, e di noi. I romanzi non sono videogiochi, in cui tutto funziona con i meccanismi elementari dell’immersione e dell’empatia: alla fine di un racconto letterario, uno deve uscirne un po’ frastornato, e con le idee meno chiare. Spero che i lettori de “La vita nascosta” si lascino prendere dal ritmo della narrazione, con i suoi colpi di scena, le sue scoperte ritardate, le sue pause, le sue accelerazioni; spero che stiano ad ascoltare R., che farà di tutto per sedurli e far credere loro di aver ragione; ma spero anche che poi ci pensino, e scoprano che come R. non sa davvero cosa gli accade, così la vita di noi tutti sfugge e si nasconde ai nostri discorsi. C’è qualcosa di terribile nel non poter mai afferrare sino in fondo l’identità degli altri, neppure quando li amiamo, e qualcosa di liberatorio nel dover rinunciare alla smania di controllo o di dominio della realtà e di sé.

E allora, Raffaele, ti auguro che i lettori di questa intervista si siano sentiti fortemente corteggiati dal tuo libro perché gli spunti di riflessione, ma non solo, che sono fuoriusciti dalle tue parole secondo me hanno il potere di corteggiarne moltissimi, di aspiranti lettore de “La vita nascosta”. Grazie di essere stata qui con me, è stato davvero un piacere e… beh, in bocca al lupo per il tuo libro, se lo merita!


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